Giorgio di Genova - Tentando voli impossibili: la
genesi della forma avvolgente
Pegonzi nell'ultimo ventennio del '900
sviluppa le forme avviate negli anni Settanta,
continuando a rifuggire, per l'intima quanto forte
tensione carnale, affidata sovente al rosa del
Portogallo, dal geometrismo euclideo, insistendo
nella sua ricerca "fuori da gelide" geometrie" in
modo da meglio esplicitare quel sottile sostrato di
erotismo che nel 1986 mi fece parlare di "scultura
come corpo d'amore". E' a morfologie sinuose,
spesso bine, sempre giocate su concavità allusive,
su contorsionismi ed intrecci che simbolicamente
ora rimandano all'abbraccio, agli abbandoni amorosi
ed alla copula (Innamoramento, 1985; Abbraccio,
1987-88; Intimità, 1991; Sogno erotico, 1994), che
Pegonzi affida il suo sensuoso periodare plastico,
che a furia di perscrutazioni dell'io è giunto a
riaggallare in più di un'occasione l'anello
uroborico, con il diapason di proiezione della
forma nel tempo del '90, in cui l'anello in marmo
di Carrara è attraversato da una dimidiata
ossificazione in travertino etrusco, per estensione
ideativi della coeva opera senza titolo, in nero
marquinia e bianco di Carrara.
Proprio per tale connotato definii lo sculture
nativo di Barga "un archeologo del profondo
archetipico" in un testo in cui, dopo aver chiamato
in causa la serie delle colombe, in rapporto alle
quali osservavo che "tutta la scultura di Pegonzi
tenta voli impossibili e, quando non può compiere
tali tentativi, si arrovella sul terreno in
serpenine che talvolta si impennano imperiosamente
alle estremità", precisavo a proprosito
dell'Uroboro: "Anche il congiungere circolarmente
le sue forme bicipiti (ed è ancora un modo di
praticare l'uno e il bino) è un far volare, anche
su se stessa, metaforicamente la scultura.
Il Grande Cerchio è un modo di bloccare il volo
icasticamente (di fissare il "volatile", avrebbero
detto gli alchimisti) restituendo l'idea base,
l'assolutezza essenziale. Quindi indicavo come
nello scandaglio dell'Uroboro o del Grande Cerchio,
che ha "a che fare sia con il carattere
trasforatore e sia con l'ontogenesi dell'io",
andava individuata la radice delle
"formeprevalentemente avvolgenti" di Pegonzi, le
quali "mutano statuto a seconda dei suoi stati
d'animo".
Giorgio di
Genova
Dalla Storia dell'Arte italiana del '900 per
generazioni "Anni Trenta"
(...) Pegonzi non rinuncia in alcun modo
all'originaria appartenenza biomorfica della sua
scultura le cui origini è bene ricordarlo, seppure
in termini indiretti e per latenze stilistiche e di
carattere generale sono da invenirsi in Arp e in
Brancusi (ma una memoria arcaica dei marmi
ciclacidi filtra irresistibile nelle opere, oggi
più che un tempo, specie in quelle di più
dichiarata ispirazione orfica, nelle quali
l'artista celebra la natura naturans sotto specie
di comunioni creaturali, di voli, di germinazioni,
di danzanti sfioramenti e penetrazini, di allusi
congiungimenti fecondi che rimandano intuitivamente
alla festa aurorale della vita).
Permane insomma la vocazione dello scultore, dalla
critica più volte stigmatizzata, a privilegiare non
solo metaforicamente la qualità carnale dei piani
flessi modulari, dei profili stondati, dei volumi
affusolati o assottigliati in lamelle linguiformi,
delle superfici leviganti come d'un respiro
profondo, sinuose e turgide e di appetibile
insinuazione erotica. Ragione non ultimal'erotismo
della seduzione estetica, del fascino ambiguo e
alquanto intrigante di queste partiture
assimilabili a veri e propri "corpi d'amore",
secondo la bella definizione di Girorgio di Genova,
il critico cui si devono le analisi più penetranti
del mondo pegonziano, sotto il profilo del sustrato
simbolico che tocca alcuni dei temi fondativi
dell'immaginario collettivo occidentale.
Non sfuggiranno l'abilità e l'oculatezza con
cui Pegonzi combina marmi eterogenei nella medesima
scultura, facendo loro giocare ruoli distinti e
complementari sia nella partitura plastica sia
nell'insinuazione fabulatoria e nella latenza
drammaturgica che dicevamo sussistere in queste
opere. Se da una parte, dunque, egli utilizza con
gusto ineccepibile e a fini squisitamente estetici
la varietà dei materiali quanto a colore e a
struttura mineralogica, da cui conseguono diversi
gradi possibilidi definizione visiva delle forme,
di pulitezza delle superfici, di risposta sensibile
della materia all'incidenza della luce,dall'altra
ne sfrutta le peculiarità per così dire recitative,
creando dosati contrasti che contribuiscono non
poco a permutare la partitura plastica in piccola
ribalta ove si un'azione di indubitabile godibilità
poetica.
Nicola Micieli
Dall'Introduzione al Catalogo della Mostra "Pegonzi
- Colloqui
Opere 1986-1998 - Bandecchi e Vivaldi, Pontedera,
1998
Vittorio Sgarbi - Recuperare un archetipo: una forma
prima del mondo
Pegonzi: viene in mente uno scultore astratto molto
sofisticato come Guadagnucci, vengono in mente i
grandi maestri che a Carrara hanno lavorato più come
tecnici del marmo che come inventori di immagine,
perché è molto difficile inventare immagini dopo
Brancusi, dopo Calder, dopo Arp, quindi dopo Mirò.
Mirò: potremmo dire che si sente l'immaginazione di
questo artista tradotta in marmo. Quello che un
pittore come Mirò affida ai colori puri è qui nel
tentativo di trasportare quell'emozione surrealista
in qualcosa di più consistente, con una molto
elevata perizia tecnica e anche con un certo gusto
nel mettere insieme le basi che vedete, su cui
poggiano queste opere astratte.
Qui siamo in una dimensione che non direi più
quella di un'infanzia ritrovata, ma nel tentativo
di recuperare un archetipo, ovvero una forma prima
del mondo, come se lo scultore dovesse competere
con dei sassi levigati che si trovano in natura e
dovesse quindi in qualche modo doppiare la natura
attraverso l'artificio dell'arte. Mi sembra che
anch'egli possa stare in quest'idea di recuperare
Brancusi e Mirò, cioè gli archetipi dell'arte in
questo secolo, perfettamente in sintonia con gli
artisti che lo circondano.
Vittorio Sgarbi
Da un intervento di Vittorio Sgarbi alla
Mostra di Orentano (Pisa), edizione 1999
Mario Monteverdi - Il segno di una vita poetica
inesauribile
(...) Di Franco Pegonzi va sottolineata -
accanto a un'eccezionale maestria nel "modellare"
il marmo con duttile eleganza - l'aderenza della
forma allo spazio in un inserimento delle sculture
nell'ambiente. Le agili strutture plastiche
acquistano una loro piena autonomia di linguaggio
nell'atto in cui esprimono le intime sensazioni, le
emozioni, gli impulsi che animano l'artista,
suggeriscono incontri, articolazioni, cadenze,
ritmi che nel loro rigore si aprono tuttavia, senza
infrangere una severa regola compositiva, alle
manifestazioni di una vitalità ricca di contenuti
umani e spirituali. (...)
Mario Monteverdi
Dalla presentazione al catalogo, Scultori e
grafici italiani e coreani, 1980
(...) Il rapporto con lo "spazio" è per lo
scultore un problema di "conoscenza" e, direi, di
evasione intellettuale, la risposta più sottile
ritenuta validaper ritornare alla materia che
esalta la propria frontiera di forma pietrosa
proprio nel suo rapporto con l'aria che la avvolge
e col mondo che la contiene. La sua, però -
contrariamente a ciò che egli scrive in una
confessione - non è stata una "mortificazione
dell'oggetto", ma una esaltazione dello spazio come
continuo limite da superare, in cui gli oggetti
tutti potessero ritrovare una loro
motivazioneesistenziale collocandosi in movimento
nella sottaciuta speranza - esistentente nel
"profondo" dell'artista - di pervenire ad una
profonda sintonia, misteriosa ed emozionante, con
tutti gli angoli e i cieli e gli spazi del mondo
conosciuto.
Per questo connubio
forma ambiente"Pegonzi inventò i "Voli", emblema
tipico di forme parenti per destini imprevisti ma
carichi di tensioni e tenerezze, i "Voli" di una
materia che si alleggerisce proprio librandosi, con
i suoi ritmi interni: un incastro, una spirale
circolante, un vortice, una rottura scabrosa,
un'ala ammiccante all'alto, un'astrazione nervosa,
una grande stele dentellata, quasi stilizzazione
enorme dei vecchi "ventagli".
Dino Carlesi
Dalla presentazione al catalogo, Mostra Personale a
Barga, 1985
(...) Ho avuto l'occasione di ammirare
recentemente nello studio, a Lunata, le sculture
più nuove di cui alcune allo stato progettuale,
comunque opere "fisicamente compiute": in ciascuna
di loro si annidavano, ancora imprecise e tuttavia
percettibili, inediti spunti intenzionali di
episodi inventivi di cui questa scultura di volta
in volta, puntualmente, suole alimentarsi. Ed erano
motivi di piacevole scorrevolezza con èmpiti di
poesia che il bianco carrarino sollecitava ad
identificare negli spazi dell'immaginario come scie
appena lanciate nell'aria: tracce lievi di un volo
di candide colombe o di igabbiani conro l'azzurro
profondo del cielo. O parevano dinamici
accostamenti di forme e colori rarefatti, suggeriti
da laboratori fantasticamente attrezzati per quelle
alchimie. Una sorta di magia pronuba di queste
unioni affascinanti fra la pietra e la forma.
Pegonzi, al di fuori della monumentalità che egli
va esprimendo con felici espressioni nelle
piazzed'italia, è da scoprire e riconoscere anche
in queste cose di medie e piccole dimensioni: dove
le ideesi abbracciano con la realtà che vi hanno
assunto la vita, come genitori e figli
ritrovatidopo la bufera del processo creativo; dove
gli amanti si legano in casti amplessi, nodi
d'amore per i loro sogni e per le loro speranze.
Tommaso Paloscia
Dalla presentazione in catalogo,
mostra personale a Lunata, 1985